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“Cella 2455 Braccio della morte”: le angosce di un condannato

(Foto IBS.it)

Che dire di Caryl Chessman, un detenuto condannato a morte nel 1948, che lottò per ben dodici anni nel braccio della morte per aver salva la vita. Durante la sua detenzione Chessman scrisse ben quattro libri, oltre che preparare appelli, lettere e studiare legge poiché aveva deciso di difendersi da solo. Così “Cella 2455 Braccio della morte” è un libro commovente per la precisa, sincera ricostruzione di una vita di odio e di crimini.

Lui non vuole la pena del lettore, né tantomeno giustificarsi per ciò che ha fatto nella sua vita.
Allo stesso tempo, l’autore condanna il sistema giudiziario, che non cerca di capire il perché un ragazzo diventa un criminale, nè di aiutarlo, ma lo condanna e lo manda in mezzo ad altri criminali e malviventi, che lo trasformano in un delinquente di bassa lega.

Questo è il vero pensiero di Chessman che emerge leggendo “Cella 2455 Braccio della morte”, il più importante dei quattro romanzi scritti in carcere, che evidenzia bene le angosciose condizioni di un condannato a morte.

Dopo aver trascorso parecchi anni in un riformatorio, alla fine del 1940 un misterioso criminale gettò nello sgomento e nel terrore la città di Los Angeles. L’uomo agiva di notte, aggredendo giovani coppie che si appartavano in auto in zone periferiche, le rapinava e costringeva le ragazze a seguirlo, spesso usando la violenza. Usava un’uniforme della polizia e una torcia che proiettava una luce rossa, rassicurante perché associata a quella delle Forze dell’ordine.
E così nacque la leggenda del “bandito della luce rossa”, che commise molti delitti prima che la polizia di Los Angeles riuscisse a catturarlo. O meglio, a catturare un giovane sbandato che sulla base di alcune incerte testimonianze, la polizia assicurò essere il colpevole: Caryl Chessman.
Caryl fu arrestato insieme ad un suo amico, mentre erano in attesa di un terzo amico, presunto proprietario dell’auto. Nell’auto in cui erano seduti i due al momento dell’arresto, furono trovati dei vestiti femminili nuovi, un lampeggiante rosso e una pistola. L’auto era una Ford nuova e di colore scuro e non era decapottabile come i testimoni dicevano. La cosa più importante è che Caryl non corrispondeva alla descrizione fisica che era stata data del rapinatore, tuttavia fu identificato da una delle vittime.

Processato e trasferito nel carcere di San Quintino, nello speciale braccio del carcere detto “il braccio della morte”. Caryl fu condannato a morte pur in assenza di omicidi a causa della “legge Lindbergh”, approvata dopo l’uccisione del piccolo Lindbergh di due anni, legge che puniva con la pena capitale. Nel suo caso sarebbe stato condannato ad una semplice pena detentiva, ma rifiutò dichiarandosi innocente.

Caryl riuscì ad ottenere una lunga serie di rinvii dell’esecuzione, con ricorsi fatti al governatore e alla Corte Suprema in cui dimostrava la sua innocenza. Il 2 maggio 1960 fu giustiziato proprio nel momento in cui era arrivato un ennesimo rinvio.

Questo libro ebbe una diffusione mondiale, diventando un’arma nelle mani degli abolizionisti della pena capitale. E’ un invito a riflettere sulla pena di morte.

Quando si termina di leggere il libro, l’unica domanda possibile che ci si pone è: Caryl la camera a gas? Potrebbe non essere stato colpevole, non perché lo dicesse lui, ma perché non era suo il modus operandi accertato, quindi sarebbe stato giustiziato ingiustamente. E anche se lo fosse stato, non aveva ucciso nessuno, e quindi non meritava comunque la camera a gas.

Fino alla fine dei suoi giorni affermò sempre la propria innocenza, tanto da lasciar detto ad una delle guardie, pochi istanti prima dell’esecuzione, di riferire queste parole: “Non sono io il bandito della luce rossa”.

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